martedì 6 dicembre 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino

Il film di Sean Penn, sentivo dire, mica quello di Sorrentino… no. E poi sono andata a vederlo, dopo la 10 giorni del Festival di Roma, finalmente mi sono concessa l’amato che, per fortuna, nel frattempo non è emigrato verso cinema “fuori zona”.
Sebbene il King sia un cinema fastidioso, perché popolato da gente che chiacchiera come se stesse vedendo il film nel proprio salotto, sono riuscita ad isolarmi e ad eleggere la prima canzone come la prima traccia sorrentiniana rinvenuta.
Perché questa è la verità: c’era un regista nuovo davanti ai miei occhi che girava la storia di Cheyenne (Sean Penn) e che non disdegnava di tornare sui suoi must, spesso, nel film. Sì, la mano era sempre la sua, ma con qualche pennellata più pop e fuori dal solito tracciato. Per esempio l’interazione tra i personaggi del film. No, non gli attori, ma parlo proprio della scrittura! Cheyenne e la moglie, insomma, più che Sean Penn e Frances McDormand che, dopo Fargo, ho mai dimenticato e, anzi, piuttosto l’ho adorata sempre più. Lei, il suo, un personaggio meraviglioso, agli antipodi di Cheyenne e surreale.
Tuttavia temo che il film non sia calibrato bene nel peso che hanno le due parti: la prima è decisamente migliore, mentre la seconda soffre un po’, si sfilaccia, non matura. Probabilmente è il risultato della stanca della storia che non regge a lungo. Ho sentito da molti che se avessero tagliato 10-15 minuti, non si sarebbe nemmeno sentito, anzi.

La prima scena dichiaratamente sorrentiniana è SENZA DUBBIO alcuno la VASCA vuota adibita a campo di Pelota, per divertire la coppia.
Cosa ho sempre adorato di Sorrentino? La visione globale che un bravo regista dovrebbe sempre avere rispetto ad una sua opera: il cast e una buona direzione di questo, la musica, la fotografia e la storia, dunque, costruita in parallelo a questi elementi che non sono mai stati un contorno, ma sempre parte del tutto.
Altra scena sorrentiniana: il cane col paraorecchie nella vasca vuota.
Il tempo è tutto quello che le serve. È il tempo che le lusinga, le donne”. È Cheyenne, musicista un po’ depresso, rocker 50enne, ma che non può rinunciare al suo trucco, ai capelli, ai vestiti… da rocker! Eppure deve portare gli occhiali da presbite e comincia a sentire che qualcosa stride.
Nei film di Sorrentino il protagonista ha sempre un oggetto che sembra quasi una coperta di Linus… e così il trolley-borsa della spesa di Cheyenne mi è sembrata subito avere qualcosa in comune con la busta che teneva sempre in mano Geremia de’ Geremei ne L’amico di famiglia. Non trovate?

Una cosa che si ripete - apprezzabilissima, peraltro – è lo scovare/inventare/inserire personaggi assurdi, un po’ surreali, un po’ particolari, bizzarri: piccoli cameo che rendono il viaggio più divertente o amaro, un po’ alla Cohen: appaiono e scompaiono, descritti però con un’attenzione e una dovizia di particolari che spesso non si danno ai secondari. Tutto concentrato in pochi, pochissimi minuti. Il tizio che presta il SUV a Cheyenne, oppure l’inventore del trolley che gli chiede che ne pensa della differenza tra Turista e Viaggiatore e Cheyenne risponde che non sa, ma che i viaggiatori gli sono sempre stati sul cazzo.

La sua ricerca continua, per tutto il film. La sua ricerca lo porta lontano, con buona pace del padre.
E il monologo finale dell’aguzzino di quest’ultimo è un capolavoro. Molto sorrentiniano, insisto.

Cheyenne/Sean scioglie le briglie et voilà, il film è tutto suo. L’introspezione, la ricerca della maturità, la fine o l’inizio di tutto. Dare il via e vedere il mondo con altri occhi: la propria vita, più che il prossimo. La scena finale è rivelatrice. È tutto un concentrato di Sean, spaziale certo, ma un buon film è fatto da una squadra che, ahimè, gli spettatori, i più almeno, non conoscono.
La musica è eccellente, perfetta. La mancanza di Theo Theardo (impiegato al Festival) non si sente, crredo, perché questo film ha bisogno di un respiro maggiore, che le pareti delle note per le scene di Theardo.
David Byrne… ah ah. A parte il momento recitativo trascurabile, nell’incontro con Cheyenne, ma la scena di lui che canta è stupefacente. In Italia non c’è nessuno che fa queste cose!!!
Insomma la verità è, credo, che io ho amato molto Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia, ma anche questo, sebbene sia meno forte degli altri, come struttura/storia, lo trovo superiore, nuovo, originale, sopra la media italiana, di certo.

Orsù italiaci!

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Posso chiederti perchè lasci fuori L'Uomo in più? E' la prima costruzione compiuta. Qulla forse a cui sono più legato. Del resto cosa è il suo cinema e la sua scrittura ( Hanno tutti ragione) se non l'arte di creare un personaggio (da Tony Pisapia a Cheyenne, passando per Tony Pagoda).

-p

Robiciattola ha detto...

ODDIO! Hai ragione! Mi sentivo, in effetti, metnre scrivevo che mancava un pezzo... SORRY! Hai ragione. Ne Le conseguenze dell'amore c'era la rivelazione, ma ne L'uomo in più c'è stata la conferma.

Anonimo ha detto...

...hanno tutti ragione!

anche se, ricordati, la conferma è antecedente alla rivelazione: prima l'uomo in più (2001), poi le conseguneze (2004).

Hai letto il libro?

-p

Robiciattola ha detto...

tutti chi?
nonnò, stavolta dicevo bene per quanto mi riguarda, perché io ho visto prima le conseguenze dell'amore e poi l'uomo in più.

che libro?

Anonimo ha detto...

hanno tutti ragione = titolo del libro scritto da sorrentino = lo hai letto?

-p

Robiciattola ha detto...

no. non l'ho letto. per un attimo ho avuto la tentazione, ma mi è passata. troppa sovraesposizione di lui, in quel momento. e, forse, avevo cose più interessanti da leggere

Anonimo ha detto...

con la stessa passione con cui hai visto this must.., che anche io ho adorato, vai a vedere the artist e fammi sapere.
ciao Carola quella del tennis

Robiciattola ha detto...

Ciao "Carola quella del tennis"!
Si, ci volevo andare sabato. Poi niente!
Ci vado presto e ti dico.
a presto,
Rob

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