lunedì 12 aprile 2010

Cine visti

Il profeta
di Jacques Audiard

A 19 anni El Djebena entra in carcere. Fa parte della moltitudine informe di nordafricani francofoni che a Marsiglia impazzano. Tahara Rahim, questo il nome dell’attore, è bravissimo a mostrare l’evoluzione del cattivo e del buono che c’è nel suo personaggio.
La sua vita in carcere diventa una scuola per imparare giorno dopo giorno a difendersi, a farsi un nome, ad essere sempre in prima linea nei contatti con quelli che contano. Merita così l’appoggio e la fiducia del boss Luciani (premio Caesar a Niels Arestrup), un corso. E i corsi pare siano tutti criminali incazzati. El Djebena è arabo e non è lo stesso. Eppure la salita nella scala sociale cerca di accaparrarsela con determinazione e senza mezzi termini.
Audiard rientra in quella categoria di registi che amo perché sanno cambiare le loro storie. Il film precedente era Tutti i battiti del mio cuore con Romain Duris. Tuttavia ho trovato così importante Sulle mie labbra, folgorata dalla storia, per la drammaticità e le sensazioni. Per me diventare eclettici sui generi, nella scelta del come raccontare una cosa, significa davvero vedere il mondo a 360°.
Avevo parlato in questi termini anche di Fatih Akin, nel caso di La sposa turca VS Soul Kitchen (Qui) o di Mungiu, nel caso di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni VS I racconti dell’età dell’oro (Qui).


Donne senza uomini
di Shirin Neshat

La regista è una fotografa. Dissidente. Non vive in Iran da decenni. Un po’ come un’altra donna iraniana famosa (e chissà quante altre!) Marjane Satrapi (Persepolis*).
Shirin Neshat è cresciuta artisticamente negli Stati Uniti e ha frequentato luoghi dell’arte, di artisti.
La musica per il film l’ha composta nientepopodimenoché Ryuichi Sakamoto. Alto livello.
La regista è una fotografa, ripeto. Ripeto perché è molto evidente nelle inquadrature di ogni frammento di film che scorre davanti agli occhi di uno spettatore impressionato, sicuramente, da questa visione: attenzione ai particolari e quattro donne protagoniste come non se ne trovano dalle nostra parti.
Il film è tratto dall’omonimo libro di Shahrnush Parsipur, edito da Giovanni Tranchida Editore.

1953. Teheran. Diverse eppure così vicine. Sole come solo in un paese che non le considera si può essere.
Belle. Fakhri, Zarin, Munis e Faezeh. More, ma talmente more che i loro lineamenti sembrano disegnati con un pennello, invece che con una matita. Tutte decidono di smettere di accettare la condizione in cui vivono, perché gliela impone qualcuno. Tutte, in un modo o in un altro. Una lotta col proprio corpo, che fa da testimone, un’altra combatte per il proprio orgoglio di donna, una comincia a lottare perché, finalmente, scopre la vita, mentre Munis si aggira fantasmatica con la sua carica socialmente impegnata, ma atrofizzata.
Triste, ma pieno si speranza. A suo modo. Un modo intrinseco, certo. Ma ricco.

Il blog ufficiale, in italiano: http://www.donnesenzauomini.it

Il 16 aprile esce nelle sale anche I Gatti Persiani. L’Iran ha al suo interno un movimento di intellettuali e ribollimento culturale che sembra davvero frenetico e forte.

*ne parlo qui (Marjane Satrapi a Cannes) e qui (Ancora Persepolis).
buone visioni,
Robiciattola

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